Non sei capace nemmeno a mendicare.
Solo figli, sai fare.
Pensate a me.
Non sei capace nemmeno a mendicare.
Come stai? Spero tutto bene. È tanto che non ci si sente, avevo bisogno di udire la tua voce.
Dimmi di te, per favore, distraimi, portami lontano da quello che ogni giorno provo qui dentro, portami lontano dalle due brande, dal letto, dalle poche sedie che arredano questo luogo di infelicità, trascinami via da Torino, da Regio Parco, da tutto.
No, impossibile. Ci sono i bambini, e io senza di loro non posso esistere. Non posso respirare. Il più grande ha nove anni, dovresti vederlo quanto è cresciuto, sai?
Ma dimmi: è possibile, secondo te, disprezzare tanto un essere umano e, nel medesimo tempo, amare oltre la ragione i figli che ci hai fatto insieme?
Al momento aspetto il quinto. Com’è difficile, com’è impossibile far germogliare qualcosa in questa casa. Eppure ci riesco, perché dare felicità ai bambini, anche con un sorriso, li aiuta a essere sereni, anche nei momenti in cui vorrei solo fracassarmi la testa contro al muro.
Ogni sera tremiamo come foglie, quando Pietro rientra. Sentire la porta che cigola, Dio, equivale a piovere giù, lungo un precipizio, agonizzando morenti per ore. Muoriamo tutti, ogni giorno, con Pietro.
Non sai cosa significa, per me, mendicare per strada coi bambini, a collezionare le fortune delle altre persone, per riportarle, a sera, a mio marito.
Che odora di alcol, e puzza di miseria.
Io lo faccio per i bambini. Pure per la creatura che verrà. Sono i più belli del mondo, anche se vestono di stracci e non posso agghindarli come i figli dei signori.
La nostra vita, ormai, è questo.
Uscire al mattino.
Elemosinare.
Portare i denari che raccogliamo a Pietro.
Il nostro giro.
Io sono meno brava, in questi giorni, perché sono in attesa. E Pietro me lo rimprovera, in continuazione, d’essere una buona a nulla poiché non mi riesce di mendicare, ma solo di mettere al mondo creature.
Sapessi come si sta bene, quelle volte in cui lo arrestano e passa settimane in prigione. Finisce dentro per i furti, perché non sa lavorare, ed è solo rubando agli altri che riesce a cavare qualcosa.
Si è felici quando lui è in galera, e lo saremmo pure se fuori ci fosse la fine del mondo, se il re non ci fosse più, tutto, tutto ci andrebbe bene, senza di Pietro.
Ma poi lui torna. E questa casa riprende a puzzare di alcol. E delle sue mani, mani che battono sull’unico tavolo che abbiamo, che chiedono denaro, i soldi dei suoi figli costretti a fare i mendicanti mentre lui spende in osteria quello che i bambini raccattano per strada.
Anche i vicini, ormai, ci fanno la carità. Hanno pietà di me, forse anche più di quanto ne nutrano per i bambini. Oh, non sai quanto sia terribile sentirsi addosso gli occhi della compassione dellepersone. Perché devi essere grata, anche quando vorresti solo non esistere più.
Non sei capace nemmeno a mendicare.
Solo figli, sai fare.
Pensate a me.
Non sei capace nemmeno a mendicare.
Sai, a breve è Pasqua.
Mi sono fatta forza, e ho deciso di fare un dono, ai bambini. Per far capir loro che non esiste solo l’esser mendicanti. Si può anche essere felici, pure se per pochi secondi.
Ho trovato un cavallo a dondolo, piuttosto modesto, lo so; ma loro non conoscono la differenza tra ciò che è modesto e ciò non lo è, per loro è solo un balocco. Il primo vero.
So bene che li renderà felicissimi.
Adesso ti saluto.
Vorrei risentirti presto. Scusami se non ti ho lasciato parlare, ma sai, non mi capita tanto spesso di dire qualcosa su di me.
25 marzo 1938. A Torino Teresa Cena, trent’anni, madre di quattro figli e in attesa del quinto, viene uccisa dal marito, Pietro Audino.
L’uomo, che la costringe a mendicare insieme ai figli per poi sottrarle il denaro, le fracassa il cranio con una bottiglia quando scopre che ha acquistato un cavalluccio a dondolo per i bambini, come dono di Pasqua.
Dopo il delitto l’uomo tenta la fuga. Invano: bloccato dai vicini, viene subito consegnato alla polizia.